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Nel Liceo occupato_3

Palermo, 27 dicembre 2010, Liceo Scientifico Benedetto Croce.

"Portineria".

Commentaire 2

  • Geo Portaluppi 24/01/2011 2:40

    Qui c’è anche Cappuccetto Rosso, allora siamo a posto: si può incominciare. Cappuccetto Rosso è la ragazza seduta accanto all’albero di Natale, tra il Lupo Mannaro, un sinistro personaggio dal vello nero e folto, con celato il volto, che sta acquattato alla sinistra di Cappuccetto, mentre dirimpetto, alla sua destra, compare il Cacciator Cortese, con casco regolamentare per sparare a quaglie e stambecchi, è vigile ed è tutt’orecchi, giacché gli occhi ha coperti: chissà come farà a prendere la mira? Manca la nonna poiché si trova ancora nella pancia del lupo, essendo il cacciatore otticamente impedito a praticargli un’incisione chirurgica partendo dall’ombelico. Ma senz’ombra di dubbio vi dico che in luogo della nonna c’è, gradito ospite della portineria, il Porcellino Grande (alias Gimmy) della fiaba i “Tre porcellini”, in quanto ha pendenze di sfratto dalla sua casa di mattoni, proprio con il lupo che gli sta alle spalle, il quale non riuscendo a buttargli giù la casa con un soffio, lo attacca con la lupesca normativa dell’equo canone. Orbene, specialmente nelle festività natalizie si raccontano le fiabe ai piccini, ma… siamo sicuri di fare la cosa giusta? Le fiabe in circolazione sono un po’ raccapriccianti, a volte truculente: nonne ingoiate vive, pance di lupi sventrati, per non parlare dell’orco che mangia i cristianucci, o della strega nefasta che per sete di potere o di bellezza fa uccidere Biancaneve nella foresta. La morale della fiaba dei “Tre porcellini” è questa: è l’apprendimento che avviene nel corso della crescita di un bambino, simboleggiato da tre porcellini di tre diverse età. C’è il bimbo/porcellino Piccolo (Timmy), che costruisce una capanna con la paglia e, inesperto più di tutti, sbaglia perché si preoccupa solo di fare presto e con poca fatica, poi c’è quello Medio (Tommy), che costruisce un rifugio più solido con rami e assi di legno, e infine quello Grande, ammirabile nella foto, con sciarpone adatto per chi va in moto. Parlando di apprendimento siamo in tema, giacché in un Liceo l’insegnamento è l’essenza suprema. E in tale ottica, lodevole fu l’intento di Jacobs Joseph (1854–1916) l’autore della fiaba, un letterato ebreo nato a Sidney, in Australia, che raccolse in sei volumi le favole inglesi, celtiche, indiane e di diversi paesi europei. Ha conservato e preservato un patrimonio favolistico, tramandando ai posteri tradizioni che forse sarebbero andate perse, e di questo gli siamo enormemente grati, tuttavia non possiamo ignorare che sia il contenuto e sia il linguaggio d’adottare nella comunicazione, in special modo per i piccini, richiedono di vergare sulla pergamena con inchiostro meno tendente al rossastro, per esempio un rosa, simile al colore delle nuvole della poesia “San Martino”, che è una forma d’apprendimento più adatta, rispetto a quella delle fiabe, dove si parla giust’appunto del Cacciator che sta fischiettando sull’uscio “a rimirare tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespro migrar”. Carducci (1835-1907) scrisse questo sonetto nel 1883, quand’era prossimo al suo mezzo secolo di vita, e fa parte della raccolta “Rime nuove”, (poesie scritte dal 1861 al 1887), ed è un componimento di esaltante impatto semantico, o meglio visivo, perché alterna, senza mostrare giunture, immagini invitanti alla serenità della sera, tanto cara ai poeti dell’Ottocento, e scene di cupa e gotica drammaticità. San Martino, l’11 novembre, è appuntamento importante per i contadini, è il responso del lungo lavoro richiesto dalla vendemmia, quando si vedrà se si è operato come Timmy, o Tommy, oppure come Gimmy. San Martino infatti corrisponde alla giornata del travaso del vino dai tini, grossi recipienti nei quali il mosto è stato a ribollire per lungo tempo, e il cui caratteristico aspro odore, diffondendosi per le stradicciole acciottolate del borgo, allerta, in un crescendo rossiniano, la comunità del futuro evento. Questo intenso odore dovrebbe rassicurare e rallegrare gli abitanti di un ipotetico piccolo paese toscano, che per cagione di paure ancestrali si è arroccato in sé stesso, per difendersi dalla furia urlante del mare, procelloso e minaccioso, mentre la nebbia, sciogliendosi in pioggerella, tenta di cancellare, essendo ella monella, ogni traccia del borgo. In merito a questa poesia mi sono sempre posto una domanda intrigante: chi è il cacciator fischiettante?
    Per “San Martino” pare che Carducci si sia largamente ispirato a una lirica di Ippolito Nievo (1831-1861), “Gli amori in servitù” contenuta nel canzoniere “Le lucciole”, pubblicato nel 1858. L’ultima città che vide Nievo fu Palermo. Aveva vestito la divisa dei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi nel 1858 e l’anno successivo si era unito alla spedizione dei Mille, compiendo la traversata sul piroscafo “Lombardo”, salpato da Quarto il 5 maggio 1860. Rimase sull’isola circa un anno, in gran parte a Palermo, domiciliato per lavoro a Palazzo Reale. Il mattino del 4 marzo 1861, Ippolito, con sotto al braccio un fascio di documenti amministrativi, si incamminò lungo l’ex molo chiamato “muraglia d’argento”, costosissima costruzione cinquecentesca che si protendeva in direzione del monte Pellegrino, e si imbarcò sul vapore “Ercole”, ancorato sul lato sinistro del molo. Le pale della ruota del postale “Ercole” si erano già tuffate nell’acqua salmastra, e il battello stava uscendo dal porto, quando ansante sul molo giunse il garibaldino Raffaello Carboni, che senza esitare si fiondò su una barca e raggiunse l’Ercole in procinto di uscire dal porto. Sul ponte del battello consegnò al suo superiore ulteriori documenti racimolati in fretta e furia. Dopo questo fatto non ci sono altre notizie certe su Ippolito che lasciò la Sicilia diretto verso il suo personale inferno, raggiungendolo nella notte di fine inverno tra il 4 e il 5 marzo. Solo pochi giorni prima, il 18 febbraio 1861, ci fu la prima convocazione del Parlamento italiano, assemblea indetta a coronamento della vittoria della 2° guerra di indipendenza e dei plebisciti che c’erano stati in vari territori conquistati. Forse Nievo venne chiamato dal Parlamento per produrre specifiche informazioni, ma della nave Ercole, dopo la sua partenza, non si seppe più nulla. Affondò al largo del golfo di Napoli e le acque non restituirono nessun corpo e neppure alcun relitto. L’inspiegabile naufragio, congiunto agli importanti documenti affidati a Ippolito Nievo, fece supporre che si trattasse di una strage di stato, ordita dalla Destra e comandata dal potere piemontese, la Casa Savoia, per eliminare la Sinistra garibaldina: 13 giorni dopo, il 17 marzo, fu dichiarata l’Unità d’Italia. La misteriosa fine di Ippolito Nievo non trovò alcuna spiegazione sensata e ciò fece nascere l’ipotesi di un complotto politico. Nel 1974 un pronipote di Nievo, Stanislao, pubblicò il romanzo “Il prato in fondo al mare”. Altri libri sull’argomento sono: “La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo «Ercole»” (2009) di Cesaremaria Glori e il recentissimo “Il cimitero di Praga” (2010) di Umberto Eco (1932), dove l’alessandrino scrittore ipotizza che un immaginario Simonini, spia e falsario, prima si guadagnò l’amicizia del tenente e tesoriere dei garibaldini Ippolito Nievo per poi sottrargli, su ordine dei servizi segreti savoiardi, registri contabili dimostranti i finanziamenti sottobanco elargiti dai Savoia. L’inventato personaggio Simonini avrebbe causato l’affondamento della nave su cui viaggiava Nievo in carne e ossa, al fine di distruggere i documenti. Il truce atto servì a qualcosa per la nascente Italia?
    Non lo sappiamo, ma non è questa la domanda giusta. Scrive Montanelli nella sua “Storia d’Italia” (volume 5): «…Era appena nata che l’Italia cominciava a contestare se stessa, e non ha più smesso di farlo. …» Prosegue Montanelli affermando che l’Italia fu forgiata dai “moderati”, ovvero la nobiltà e la borghesia grande e media, categorie esperte dei pubblici affari e nella loro gestione. I “democratici” (la fazione opposta), tra le cui fila militavano gli studenti, gli intellettuali, i piccoli borghesi, i mercanti, gli artigiani, e qualche operaio, non avevano una comune amalgama che li unisse e non riuscirono a opporsi ai “moderati” che fornirono allo Stato la loro personale impronta, con le storture e quei difetti di cui Montanelli in particolare evidenzia:
    - il centralismo delle strutture;
    - una chiusa oligarchia, che di fatto si impossessò dello Stato come se fosse un bene patrimoniale privato, trasmissibile di generazione in generazione, ma non condivisibile con altri soggetti estranei ai “moderati”.
    Molto, ma molto più tardi, con una operazione che si chiamò “trasformismo”, il “bene Stato” venne elargito a una parte dei ceti borghesi. Centellinandolo a piccole dosi.
    La conclusione del 41° capitolo del V volume della Storia d’Italia, dopo che Montanelli chiarisce che l’Italia fu gestita come un feudo di classe dai “moderati”, è di grande insegnamento e qui la ricordiamo testualmente: “...fatale era che le masse, rimaste aliene alla sua formazione, continuassero a sentirsi tali, identificando lo Stato nella borghesia, e che il loro inserimento così a lungo e ostinatamente ritardato, il loro inserimento non potesse avvenire senza crisi, i traumi e le scosse provocate dal rancore per l’antico ostracismo. È la storia di oggi. Ma cominciò allora. …”
    Gli ultimi in ordine di tempo di questi traumi e queste scosse sono gli attuali movimenti studenteschi di Palermo, diretti discendenti del mitico ’68 e forse sono picciol cosa, se paragoniamo la Storia a uno sterminato oceano, dove questi scontri, se visti dall’alto, apparirebbero sulla sua superficie come delle lievissime increspature, ma se osservati da vicino s’ergerebbero come poderose ondate di un mare che urla e biancheggia.
    Gli albori del “trasformismo politico italiano” sono rintracciabili dopo il 1880 (Wikipedia). Alla sensibilità di Carducci non poteva sfuggire questo processo, e verosimilmente ne fiutò la presenza, forse a livello inconscio, quasi annusasse un aspro aroma che serpeggiando va tra i vicoli delle case di un pacifico borgo.
    Carducci stimava molto Ippolito Nievo e, supponendolo 1° martire d’Italia, lo elevò a emblema e paladino delle aspirazioni italiane. I versi sono il suo modo di ricordarlo e così pescò dalla citata poesia “Gli amori in servitù” le parole: “…nebbia, colli, mare, pensieri, uccelli, vespero, rosseggiare, ecc.” le impastò con la sua maggiore arte e confezionò “San Martino” mettendo un cacciatore, forse delle Alpi, e io suppongo fosse proprio Nievo, di guardia sull’uscio di una casa a tutela di un’esistenza serena, con il compito di tenere sotto controllo quei preoccupanti neri esuli pensieri che faticano a volare via. Nel sonetto di Carducci si fronteggiano opposte immagini, di serenità da una parte, e di paura dall’altra, e ciò ci fa temere che nel 1883, (la data in cui scrisse San Martino) vale a dire 22 anni dopo l’unità d’Italia del 1861, la stessa data in cui Carducci incominciò le “Rime nuove”, a significare la fine di un periodo luttuoso e l’inizio di uno nuovo, radioso, una sorta di “volta pagina”… alé, punto a capo, e ricominciamo… ma, dalla lettura di queste immagini del sonetto San Martino, una poesia che va vista come se fosse una fotografia, pare che il primo ventennio della novella Repubblica Italiana non abbia mantenuto le aspettative ipotizzate da una buona parte degli italiani. In Carducci esiste il dubbio che le nere nuvolaglie, quelle coesistenti alla nebbia occultatrice e al mare in tempesta (urla e biancheggia il mar) non siano state totalmente spazzate via dal cielo italiano, ma si sono semplicemente mutate (il trasformismo di quegli anni) in nuvole rossastre in fase d’allontanamento, seco trascinandosi – egli s’augura - gli esuli pensieri neri.
    Morale: c’è sempre un Cacciatore, con o senza casco, e c’è il corrispondente Lupo Cattivo, e un Cappuccetto Rosso in perenne pericolo, che si stringe all’albero di Natale, confidando negli uomini di buona volontà, ma al 7 gennaio, quando una nonnina, facile preda dei lupi, in fretta tutte le feste porta via, anche loro, gli uomini di buona volontà, sono incartati in soffice velina e tolti dal presepio (l’unico virtuale luogo in cui possono esistere), e riposti in solaio o in cantina, fino all’anno successivo e così, per 350 giorni, spariranno dalla circolazione, lasciando spazio a chi sa come fare fruttare questo spazio. In una portineria di Palermo, nell’istituto Benedetto Croce, ritornano i personaggi del dramma di sempre. Sul tavolo troneggia la scritta «24 novembre 2010», non è esattamente l’11 novembre, la ricorrenza del San Martino, però è un giorno assai vicino, esattamente 13 giorni, l'identico periodo di tempo intercorrente tra la data dell’Unità d’Italia e la morte di Nievo, e comunque questo è il dì della vostra estate. Vivetela appieno, augurandovi che nel tino sia stato prodotto del buon vino, e che il profumo del mosto, come gli compete di sua natura, torni le anime a rallegrar. Vivete la vostra estate autunnale, questa volta però sapendo che il male non si sconfigge con l’armamentario tradizionale, e quando crederete d’avere raggiunto la vittoria, in quel preciso giorno scoprirete che la vera meta è molto lontana, ancora dovete apprendere le corrette materie del sapere, perché in quel giorno avrete solo allestito come Timmy una capanna di paglia, che con un soffio si squaglia, e i neri pensieri sono sempre lì, magari travestiti da usignolo, un caro uccelletto canoro, che però non ha l’intenzione di spiccare il volo.
  • Giuseppe Piperno 29/12/2010 13:48

    immagine da reporter....
    ma l'estintore che fine ha fatto??????
    ahahaahahaha
    bravi ragazzi anche se non vado più a scuola sono con voi....lottate.....

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