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Progetto "Foto&Racconti": Impallomeni Carmelo (Berlendis-Torrisi)

Progetto "Foto&Racconti": Impallomeni Carmelo (Berlendis-Torrisi)

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Progetto "Foto&Racconti": Impallomeni Carmelo (Berlendis-Torrisi)

Impallomeni Carmelo

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http://www.francescotorrisi.com/Foto&Racconti/Berlendis_Torrisi_Impallomeni_Carmelo.pdf


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Fotografia di Angelo Berlendis
Racconto di Francesco Torrisi
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Ciao a tutti. Io sono Impallomeni Carmelo. Nato per sbaglio contadino in una masseria al centro della Sicilia, al quale errore posi rimedio in brevissimo tempo. Io sono un meccanico. Specializzato. Lo sono sempre stato anche quando non sapevo di esserlo. I primi ad accorgersene furono i miei genitori. Mi hanno sempre raccontato che da piccolo, per lungo tempo, io non ho parlato, almeno non nei tempi giusti come fanno tutti i bambini, persino quelli pigri. All'inizio fu una grande preoccupazione per loro. Pensavano che avessi un problema. Non riuscivano neanche a capire perché io non facessi quello che facevano tutti gli altri miei cinque fratelli. Io non correvo, non gridavo, non scappavo fuori ad inseguire le galline. Io guardavo. Guardavo solo quello che mi interessava e lo toccavo. Mia madre mi raccontava sempre con orgoglio il giorno che scoprii la vite che fissava la gamba alla seduta della sedia, quella buona, quella che veniva usata solo da mio padre la sera per cena. Il giorno di questa mia scoperta, rimasi tutto il tempo accoccolato a terra davanti quella sedia guardandola e toccando la testa di quella vite che cercava di uscire timidamente da quel legno secco e screpolato. Mia madre mi disse che ci misi su il ditino la mattina e lo tolsi via solo la sera quando mi prese per portarmi a letto. Mi disse pure che mai quella vite era stata così lucida dopo tutto il tempo che le dedicai, neanche quando i nonni regalarono la sedia ai miei genitori il giorno del loro matrimonio era così brillante quella vite. Fu un segno premonitore di quello che sarebbe stata poi tutta la mia esistenza.

Crescendo, imparai anche a parlare. Non è che non sapessi farlo, infatti capivo tutto, è che non avevo nulla da dire. Volevo solo guardare quello che mi interessava. Quando raggiunsi l'età in cui ero libero di girare dentro i confini della masseria, io non andavo con i miei fratelli a giocare nella stalla o nei recinti dei conigli o fare il gioco della guerra con loro. Mi madre, quando mi voleva trovare, bastava che venisse nella rimessa degli attrezzi e delle macchine, ed io ero lì. Sporco di grasso, sotto un trattore o in mezzo a falciatrici o pompe idrauliche smontate. Quello era il mio mondo e lì scoprivo tutti i miei tesori. Anche quando giocavo a fare la guerra, la mia arma preferita era una lancia di irrorazione vecchia e storta che era stata lasciata tra le tante cose inutilizzabili, dentro la rimessa. Era un'arma segretissima, quasi extraterrestre, che avrebbe vinto qualsiasi scontro armato. Io la feci tornare lucida con il rame che sembrava appena uscito dalla fonderia e dritta come una gamba della sedia buona di mio padre. I miei fratelli, quelle rare volte che riuscivano a tirarmi fuori per farmi partecipare alle loro battaglie, non vedevano me nascosto tra l'erba alta, ma vedevano il luccichio del rame della mia lancia che brillava al sole. E mi sparavano. Mi sparavano sempre prima, anche se con i manici di scopa rotti che utilizzavano per quegli scontri mortali, manici che oltre tutto, di marziano, avevano ben poco o quasi niente. La mia lancia, per quanto tecnologica fosse, non riusciva mai a sparare un colpo prima delle loro. Veniva vista immediatamente per quanto luccicava. Che orgoglio!

Per me, il vero giorno di festa era quando papà riparava la motozappa o il trattore. E se non fosse stato per il grasso che c'era ovunque in quella rimessa e le minacce di castighi infernali da parte di mia madre, io mi sarei messo il vestito buono per andare a guardare papà. Io andavo lì e lo osservavo, tutto sudato e a torso nudo, armeggiare con tutti quegli attrezzi. Lo guardavo smontare e rimontare, stringere e allentare, battere e limare. Il mio papà era ai miei occhi un mago. Il vero Creatore di tutte le cose. E quando in parrocchia mi dicevano che c'era un altro Creatore di tutte le cose più bravo di lui, io pensavo che non conoscevano mio padre e che non stessero a dire quelle stupidaggini proprio a me, che ero per giunta suo figlio. Mi ricordo ancora il primo giorno che lasciai mio padre a bocca aperta. Mentre stavo accanto a lui ad osservarlo, lo sentii dire che ci sarebbe voluta una chiave a tubo da 13 per quel maledetto bullone e io la presi e gliela misi tra le sue magiche mani sporche. Ci fermammo a fissarci negli occhi tenendo con forza entrambi quella chiave come se fosse un ponte sospeso tra noi, io per il grande onore che mi aveva fatto, ero finalmente diventato un “uomo” ed anche mio padre, il Creatore di tutte le cose, se ne era finalmente accorto, e lui perché, guardando me e poi la chiave e poi di nuovo me e poi la chiave, non riusciva a capire se quella famosa chiave a tubo da 13 era nelle sue mani per un colpo di fortuna o per un vero miracolo. Lui l'aveva solo pensato nella sua mente che gli serviva quella dannata chiave per quel dannato bullone. Da quel giorno mio padre mi guardò sempre più spesso la sera mentre si cenava tutti assieme a tavola, seduto sul suo trono dalle viti splendenti. Di più dei miei fratelli.

La mia vita continuò così per alcuni anni. Ma le mie compagnie e i mie svaghi non erano gli animali dell'aia, non erano i campi appena arati, non erano le distese di grano smosse dal vento o qualunque altra cosa o animale che incuriosivano immancabilmente i miei fratelli. Io ho scandito i miei anni con le conquiste e le scoperte che facevo nella rimessa di mio padre. Ad esempio a sei anni scoprii che se serravi un bullone contro un altro ben benino, non si sarebbero mai più svitati neanche con le più tremende vibrazioni. Vi regalo tutta la mia cassetta degli attrezzi se mi trovate un altro bambino che a sei anni sappia questo grande e sconvolgente segreto e lo sappia anche fare.

A diciotto anni partii. Il viaggio che facevano tutti gli uomini e che tutte le mamme temevano dal giorno in cui sentivano gridare: ...è un maschio! Ai miei tempi era un viaggio lungo due anni. Era il servizio militare. E se tu eri del sud, ti mandavano al nord. Se eri del nord, ti mandavano al sud. A quanto pare i ragazzi del centro Italia erano quelli più fortunati.
Io arrivai in Piemonte. In una grande caserma fredda e dura. Le pietre di quelle mura erano differenti dalle pietre dei muri delle case intorno la mia fattoria. Quelle nostre erano di morbido tufo, le incidevi persino con un legnetto e ci lasciavi scritto per sempre tutto quello che volevi. Erano pietre che vivevano con i tuoi ricordi. In quella caserma ci sarebbe voluto un martello e scalpello solo per farci una piccolissima tacca. Non scrissi niente in quei due anni e non vi lasciai neanche un piccolo ricordo di me sui quei muri. Comunque per tutto quel tempo fu la mia casa o, meglio, la mia officina perché fui subito aggregato alla compagnia dei “genieri”. Non so come fecero a capirlo, ma quei generali ne dovevano sapere una più del diavolo: solo toccandomi in un posto molto intimo e facendomi fare un colpo di tosse, capirono subito che io, Impallomeni Carmelo, ero un meccanico specializzato. Mi stupisco come sapendo tutte queste cose continuino ancora a giocare a fare la guerra come facevo io da piccolo con i miei fratellini.

Tornai in Sicilia solo due volte. Sentii di nuovo il profumo del grasso della vecchia rimessa quando andai a casa per la morte di papà. Quando ritornai pochi anni dopo, per la morte della mamma, la rimessa aveva smesso di fare quel bell'odore di olio e di grasso e puzzava di fieno. Decisi di non tornare mai più.

Da quando lasciai la Sicilia io ho vissuto solo tra macchine, motori e quadri elettrici. Ne ho conosciute tante e di tutti i tipi. Piccole, grandi, immense, solitarie o in catena montate una dietro l'altra. Io ho sempre parlato con le mie macchine chiamandole per nome. Ho sempre voluto dare un nome alle mie macchine. Un nome di donna. La mia prima vera macchina, un tornio, si chiamava Concettuzza, come mia madre. Mi vide crescere così come lo avevano fatto gli occhi di mia madre, prima come semplice “apprendista” e così via fino a quando non diventai uno “specializzato”. E' stata sempre con me.

Io non ho avuto una famiglia, ma ho avuto tanti figli. Tutte le cose che ho creato con le mie macchine e le mie mani. Ho voluto bene a tutto ciò che costruivo e so che loro, ogni singolo pezzo, ovunque siano, anche oggi si ricordano di me. Io amavo fermarmi con le mie macchine anche quando tutti erano andati via a casa. Spesso nelle notti di pioggia e di tempesta dormivo con loro. Non avevo il cuore di lasciarle da sole.

La mia vita è stata perfetta fino al giorno in cui smontarono Concettuzza e al suo posto misero una macchina a cui avevano già dato un nome e persino un cognome, un tornio a “Controllo Numerico”. Una macchina senza anima. Una macchina che era guidata da una televisione che chiamavano computer. Fu il giorno che mi ammalai. E così, al posto del tornio, mi diedero una scopa. Il manico era fatto di plastica e non sarebbe stato buono neanche a fare la guerra con i miei fratelli, sarebbe esploso al primo colpo. Mi dissero che avrei potuto aspettare la pensione lavorando meno e con calma. Con la scopa in mano, scopando solo la polvere da terra. Non c'era neanche più la limatura del mio vecchio tornio da scopare. Quel mostro con la televisione se la rimangiava mentre la creava provvedendo, così almeno mi dissero, a riciclarla automaticamente. La mia limatura.

Un giorno trovarono solo la scopa e il mio secchio al centro dell'officina. Mi cercarono. Ovunque. Non mi trovarono mai. Mi cercarono fino all'ultimo giorno di vita di quella officina che poi era stata anche la mia casa. L'abbandonarono tutti quel posto, almeno è quello che pensano.
Io no. Io non l'abbandonerò mai.

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Exif

APN E-P1
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Ouverture 3.5
Temps de pose 1/50
Focale 14.0 mm
ISO 500